Una letterina da ben 19 pagine dalla Commissione europea è arrivata sul tavolo del governo italiano circa le modalità di rinnovo delle concessioni autostradali, con protagoniste quella dell’Autostrada del Brennero, già scaduta da 11 anni, e dell’Autostrada Brescia-Padova (e della connessa Valdastico) in procinto di esserlo nel 2026.
La Commissione nell’ennesima mesa in mora – è la terza – del governo italiano inviata formalmente al ministro degli Esteri Antonio Tajani, ma come destinatario finale il titolare delle Infrastrutture e trasporti, Matteo Salvini, critica le modalità di regolamentazione degli appalti pubblici e le procedure di appalto degli enti erogatori nei settori di acqua, energia, trasporto e servizi postali.
Nella terza contestazione europea – all’interno di una procedura di infrazione partita nel 2019 – la Ue contesta la nuova disciplina degli appalti con particolare riguardo agli affidamenti tramite la finanza di progetto. La letterina da Bruxelles parte dalla questione connessa con il rinnovo delle concessioni autostradali, da un lato per la previsione di un diritto di prelazione (A22), contro il quale si è schierata Aspi stessa (salvo poi ritirare il ricorso), e dall’altro per l’ipotesi di affidamento diretto della tratta Brescia-Padova a Cav (la concessionaria della Padova-meste e del Passante di Venezia posseduto da Anas e Regione Veneto), anticipata nei mesi scorsi da Salvini.
Alla base di tutto ci sarebbe il nuovo Codice dei contratti pubblici approvato dal governo italiano con decreto legislativo ad aprile 2023, su cui l’Europa ha mosso una serie di obiezioni, poi recepite da un decreto correttivo che, però, pare non avere soddisfatto la burocrazia europea, tanto da fare scrivere nella letterina europea che «alcuni dei rilievi mossi non sono stati interamente risolti e alcune delle disposizioni del codice aggiornato continuano a non essere conformi al diritto dell’Ue in materia di appalti pubblici».
A finire nel mirino dell’Ue sarebbe la procedura di affidamento in finanzia di progetto che non presta «le adeguate garanzie procedurali a presidio del rispetto dei principi di trasparenza, parità di trattamento e non discriminazione e lascia invece uno spazio troppo ampio alla discrezionalità dell’amministrazione aggiudicatrice».
Secondo la Commissione Ue per l’affidamento dei servizi ed opere pubbliche la via principale deve essere la gara, mentre le eccezioni, come finanza di progetto e procedure “in house”, devono essere giustificate in maniera dettagliata e soprattutto convincente.
Altra questione evidenziata è relativa alla previsione «di un diritto di prelazione in campo al promotore/proponente» contenuta nella gara relativa alla A22, che, secondo la Ue «tale disposizione viola i principi di parità di trattamento e non discriminazione sanciti dagli articoli 3 e 30 della direttiva 2014/23/Ue».
In conclusione del papiello comunitario, i funzionari danno al governo italiano due mesi di tempo per rispondere e giustificare «disposizioni del quadro normativo non conformi al diritto Ue». In caso contrario, «dopo che avrà preso conoscenza di tali osservazioni, oppure caso di omesso inoltro delle stesse entro il termine fissato, la Commissione si riserva il diritto di emettere, se del caso, il parere motivato previsto dal medesimo articolo». Ovvero attivando le procedure per l’attivazione dell’ennesima violazione del diritto comunitario con le relative sanzioni.
La letterina della Commissione europea pare essere una sorta di pietra tombale sulla “tradizione” italiana di non fare cessare mai gli effetti di concessioni giunte a scadenza naturale, con opere realizzate e adeguatamente ammortizzate con la dovuta remunerazione di chi le ha realizzate per conto del concedente, l’ente pubblico di turno, spesso lo Stato, preferendo la via di continue proroghe e riassegnazioni, magari con la scusa di fare qualche bretella, qualche terza o quarta corsia ed altro ancora. Opere che possono esser svolte anche direttamente dal concedente incassando direttamente i proventi dai pedaggi, se necessario.
Di fatto, ora il governo italiano ha due alternative. Una è quella indicata dalla Commissione europea, ovvero una gara aperta a tutti i concorrenti senza alcun paracadute di sorta, con l’offerta migliore che vince per una durata congrua (i 15 anni indicata dall’Autorità regolazione trasporti e non i quasi eterni 50 anni chiesti da Autobrennero). L’altra è quella già praticata dalla Spagna, che al termine della concessione autostradale (e negli ultimi anni hanno riguardato ben 1.300 km di rete) le infrastrutture sono rientrate nella completa disponibilità del concedente senza alcun ulteriore indennizzo di sorta in capo al concessionario, con conseguente liberalizzazione delle tratte.
La seconda via sarebbe sicuramente la soluzione da privilegiare anche in Italia, anche per dare vantaggi ad imprese e cittadini in termini dell’azzeramento dei pedaggi – spesso esosi a fronte di un servizio, quello di un viaggio veloce e sicuro, spesso disatteso da continui rallentamenti ed incolonnamenti senza alcun indennizzo per i viaggiatori paganti – o, al limite, in cambio di un piccolo obolo legato ai costi di manutenzione dell’arteria da incassare mediante sistemi più semplici, come una vignetta periodica vigente in altri paesi per azzerare i costi di esazione. Utile anche per evitare di esportare ricchezza italiana in capo a società spesso estere e spesso emanazione di fondi speculativi, come nel caso del passaggio della proprietà di Aspi dalla famiglia Benetton a Cdp affiancata da due fondi finanziari.
Uno scenario che sarebbe semplice e lineare, anche se è lecito nutrire dubbi sulla capacità del governo italiano e dei vari potentati locali – spesso azionisti delle autostrade che si comportano come se queste fossero “cosa loro” utilizzandole come ricche manomorte clientelari – di concretizzare uno scenario del genere che taglierebbe di netto diritti feudali sulle infrastrutture pubbliche che vanno restituite ai cittadini. Insomma, sul rinnovo delle concessioni autostradali italiane è necessario cambiare passo.
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