L’economia italiana vira verso la debolezza

Senza il Pnrr il Paese sarebbe già in recessione e la Finanziaria 2026 pare non avere forza sufficiente per superare una crescita da prefisso telefonico.

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L’economia italiana rallenta sempre di più, tanto che anche il Documento programmatico di finanza pubblica (Dpfp) prodromo alla Finanziaria 2026 ha tagliato le previsioni di crescita 2025 dallo 0,6% di primavera al 0,5% si solo pochi giorni fa, complice anche la virata in negativo dell’economia nazionale nel secondo trimestre 2025, chiuso a -0,1%, con il rischio di bissare una crescita negativa anche nel terzo, aprendo così alla recessione tecnica.

Il problema di fondo è che l’economia italiana rallentaper cause anche esterne, a partire dalle tensioni internazionali e dalla politica daziaria degli Stati Uniti, ma soprattutto per l’incapacità interna di spendere presto e bene le risorse disponibili. Un esempio su tutti. Il Pnrr doveva essere la fionda per rilanciare l’economia asfittica del post pandemia e l’Italia è stata la beneficiaria del fondo di maggior volume di risorse disponibili, 194,4 miliardi di euro, di cui un terzo in sovvenzioni a fondo perduto e due terzi a debito da restituire. Bene, di queste risorse affluite a partire dal governo Conte 2, poi con il Draghi e infine con il Meloni non sono riuscite nel loro intento di rilanciare l’economia italiana a livelli superiori a quello di prefisso telefonico, con il risultato che il loro effetto andrà largamente sprecato.

Il problema, oltre che per la destinazione dei finanziamenti, più volte rimaneggiata da tutti i governi, è nell’incapacità cronica del sistema Italia, sia a livello centrale che periferico, di spendere presto e bene. In tre anni di governo Meloni la più attesa delle riforme, quella sulla burocrazia, pare miseramente fallire, visto che non si è riusciti a semplificare il processo decisionale e autorizzativo, con il risultato che i progetti rimangono impaludati per mesi se non anni nel processo autorizzativo e finanziario.

Il risultato è sotto gli occhi: su 140 miliardi dei 194,4 già ricevuti, l’Italia è riuscita a spenderne finora un centinaio circa e nei prossimi 9 mesi dovrebbe investire i rimanenti 94. Un’opera al limite dell’impossibile, visto che si dovrebbe passare da una media di 4 miliardi al mese a oltre 10. Di qui le manovre dell’Italia – assieme ad altri paesi in ritardo sulla tabella di marcia del Pnrr, come la Spagna – a utilizzare il paracadute delle “facility”, veicoli finanziari specifici definiti da una direttiva Ue del 2021, che impegnano entro la data di scadenza del Pnrr al 30 giugno 2016 le somme non ancora utilizzate, con la possibilità di spenderle effettivamente entro il 2029. Per concretizzare le facility, il governo italiano recupererà le somme non ancora utilizzate e le destinerà a contratti di obiettivo stipulati con enti pubblici come Cassa depositi e prestiti o Invitalia per soddisfare i requisiti della Commissione Ue.

Ma un altro aspetto è di importanza fondamentale: senza l’apporto del Pnrr, di suo utilizzato malamente, l’economia italiana sarebbe già entrata in recessione e il 2026 lo sarebbe pienamente. E la Finanziaria 2026 pare non essere in grado di imprimere una svolta reale al rilancio dell’economia italiana, continuando a galleggiare con politiche che privilegiano il servizio al debito pubblico, in linea con i governi tecnici tanto invisi all’attuale maggioranza, più che allo sviluppo e alla riduzione dell’asfissiante pressione fiscale.

Il governo Meloni dovrebbe avere più coraggio nell’aggressione alla spesa pubblica tagliando maggiormente gli sprechi e, soprattutto, attuando quegli strumenti di cartolarizzazione del patrimonio pubblico, spesso inutilizzato se non trascurato, trasformandolo in veicoli finanziari da piazzare sul mercato. Da più parti si sono progettati strumenti in grado di muovere risorse per 250-300 miliardi da destinare alla riduzione secca del debito pubblico, ma son rimasti sempre sulla carta per mancanza di decisioni politiche. Altra spinta potrebbe venire dalla cessione parziale o totale sul mercato delle quasi 2.500 tonnellate di oro detenuto dalla Banca d’Italia, il terzo maggiore quantitativo statale al mondo dopo Stati Uniti e Germania, che al momento, con le quotazioni dell’oro ai massimi storici, vale oltre 300 miliardi di euro. Due operazioni che potrebbero mettere in campo un taglio di 400-500 miliardi del debito pubblico che ridurrebbero gli oneri annui per interessi, oltre a migliorare il giudizio di sostenibilità dell’economia italiana, con un’ulteriore riduzione del differenziale sui titoli di Stato.

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