giovedì 1 Maggio 2025
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    L’effetto volano atteso dal Pnrr praticamente azzerato, con il dubbio che i fondi presi a debito da restituire siano effettivamente efficaci e non convenga fermarsi.

    Italia in frenata nel 2024 per il Pil, mentre cresce il debito e la tassazione

    L’effetto volano atteso dal Pnrr praticamente azzerato, con il dubbio che i fondi presi a debito da restituire siano effettivamente efficaci e non convenga fermarsi.

    Secondo i dati consuntivi dell’Istat del 2024 emerge un’Italia in frenata, con il Pil che chiude sì in attivo al +0,7%, ma meno dell’1% previsto dal governo Meloni nel Piano strutturale di bilancio, con un ammontare di 2.192.182 milioni di euro, ma con una crescita decisa dell’indebitamento con il deficit a -3,4%, migliore sia del 2023 (-7,2%) e delle previsioni del governo (-3,8%) e il debito pubblico al 135,3% rispetto al 134,6% del 2023. In forte crescita la tassazione, cresciuta di 1,2 punti, al 42,6% rispetto al 41,4% del 2023.

    Usando una metafora marinaresca, l’Italia in frenata è come quella nave che continua a navigare, zavorrata da un eccesso di debito pubblico e da troppe tasse, con le pompe di sentina spinte al massimo per evitare di andare sotto la linea di galleggiamento se solo le condizioni del mare peggiorano. Un mare, che in termini economici, sono le condizioni internazionali che vedono un’Europa in continuo rallentamento se non di stagnazione, con la Germania in recessione per il secondo anno consecutivo e con il rischio di esserlo anche nel 2025, e con l’export italiano a rischio di forti dazi Usa che potrebbero spingere ulteriormente l’Italia in frenata in termini di Pil nazionale.

    In questo contesto sta venendo a mancare la spinta alla crescita dal Pnrr, da quei 197 miliardi che avrebbero dovuto essere la “pioggia di miliardi” del governo Conte 2 che avrebbero dovuto assicurare il futuro radioso al Paese, ma che pare essere ormai andato fuori fase, con una capacità di spesa frenata dall’onnipresente burocrazia mai riformata con decisione dal governo Meloni, tanto che dei 122 miliardi già incassati a fine dicembre 2024 ne sono stati spesi circa una cinquantina, dal 30% (Assonime) al 40% (Confindustria) del totale complessivo a seconda dei dati elaborati dai vari studi di categoria, con il rischio che i 122 miliardi a prestito da restituire siano soldi letteralmente sprecati nella mancata capacità di spesa produttiva di infrastrutture, di ricerca, di sviluppo, tanto che sarebbe opportuno riflettere seriamente se non sia il caso di fermarne l’incasso, visto che ben difficilmente, entro i prossimi 16 mesi, si riusciranno a spendere i 108 miliardi ancora da spendere.

    Intanto, il mix di crescita asfittica, riduzione del potere d’acquisto causa inflazione, fiscal drag e mancati rinnovi contrattuali dei lavoratori dipendenti e tassazione iugulatoria per chi non evade crea le condizioni per una generale sfiducia, tanto che da Confesercenti si provoca con uno scenario al 2034 (!!!) secondo cui «a quella data non ci saranno più negozi» secondo la denuncia di Mauro Bussoni, segretario generale di categoria, che chiede «leggi orientate anche verso una fiscalità di vantaggio per le piccole attività commerciali: In Italia fino ad oggi è stato fatto poco e niente, anzi, diciamo niente che è più corretto. Il settore del tessile e dell’abbigliamento è a rischio, ma già le edicole praticamente sono scomparse, attività di giocattoli, libri, ferramenta, un po’ in tutti i settori. C’è una rivoluzione anche all’interno del mondo della distribuzione, però occorre garantire equilibrio: va data capacità alle piccole imprese di potersi mantenere nel territorio».

    Per il segretario di Confesercenti «il rischio che abbiamo con lo spostamento di quote di mercato e con la chiusura dei piccoli esercizi è che si vada a delocalizzare la vendita dei prodotti commerciali, per andare ad arricchire chi probabilmente non è neanche residente in Italia. Ma al di là di quello c’è anche un problema di natura sociale: le attività commerciali garantiscono sicurezza, garantiscono socializzazione, garantiscono economia per i comuni che, senza entrate, difficilmente potranno gestire tutta una serie di servizi. Si rischia di entrare in un loop dove ci saranno pochi che controlleranno tutto il settore della distribuzione commerciale, quindi dei monopolisti».

    Per Giovanna Ferrara, presidente di Unimpresa, «l’economia sta crescendo troppo lentamente e la pressione fiscale continua ad aumentare, soffocando la capacità di investimento delle aziende. Un Pil fermo allo 0,7%, al di sotto delle stime del governo, dimostra che il sistema produttivo fatica a ripartire, in particolare nel comparto industriale, che per le nostre imprese rappresenta un motore essenziale. Il miglioramento dei conti pubblici, con un deficit ridotto al 3,4% e un saldo primario tornato positivo, è senza dubbio un segnale positivo, ma rischia di trasformarsi in un’illusione se il costo di questo risultato ricade interamente sulle spalle di imprese e lavoratori. L’aumento della pressione fiscale al 42,6% del Pil è un campanello d’allarme che non può essere ignorato: significa che le aziende versano più tasse ma non vedono un ritorno concreto in termini di incentivi, credito agevolato o riduzione del cuneo fiscale. Per le Pmi, già alle prese con costi dell’energia elevati, burocrazia soffocante e difficoltà di accesso al credito, questa situazione è insostenibile».

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