Il fortissimo aumento dell’export di auto cinesi, elettriche, ibride e soprattutto termiche a benzina, sta mettendo sotto pressione l’industria automotive europea, con volumi raddoppiati su base annua, raggiungendo quota 222.000 unità, secondo i dati della China Association of Automobile Manufacturers (Caam), un volume spinto dai bonus in scadenza per il passaggio a una vettura elettrificata.
A trainare la crescita sul mercato europeo è Byd, il colosso di Shenzhen fondato nel 1995 che oggi è il primo costruttore globale di veicoli elettrici. Nel Regno Unito, principale mercato estero del gruppo, le vendite di auto elettriche sono aumentate dell’880% a settembre rispetto allo stesso mese del 2024, complici anche le politiche di sostegno all’elettrificazione attuate dal governo Starmer. In Europa, nei primi otto mesi 2025, le immatricolazioni Byd sono cresciute del 280% rispetto al 2024, anche grazie ad una politica commerciale molto aggressiva, visto che offre veicoli di qualità a prezzi medi inferiori rispetto ai rivali occidentali. Rivali europei che pagano lo scotto pagato vent’anni fa, quando le case europee volevano entrare sul mercato cinese e per farlo sottostarono alle condizioni del governo di farlo solo attraverso società a mezzadria con produttori cinesi, con l’obbligo di trasferimento tecnologico. E vent’anni dopo, gli allievi hanno superato i maestri, sia nell’elettrico che anche nel termico a benzina.
Ora, la strategia di espansione poggia sulla produzione in Europa per il mercato locale. Una fabbrica è in costruzione in Ungheria e un’altra in Turchia, con quella turca che subirà un’accelerazione rispetto a quella ungherese perché formalmente non soggetta agli obblighi comunitari di avere una quota minima di componentistica prodotta in Europa, favorendo così la creazione di una fabbrica cacciavite per l’assemblaggio di parti provenienti dalla Cina.
Se la Cina esporta a tutto spiano, l’Europa prima frena e ora arretra. Secondo l’aggiornamento periodico dell’AlixPartners Global Automotive Outlook, nel 2025 il mercato automobilistico europeo calerà del 2% a 18,3 milioni di veicoli venduti, con una crescita modesta negli anni successivi. Ma il calo dei volumi venduti non interesserà i costruttori cinesi che continueranno a guadagnare terreno, passando da una quota dell’8% nel 2024 al 13% nel 2030, pari a 800.000 veicoli in più a danno della quota dei produttori europei che vedranno la loro quota scendere dal 62% al 58%.
Quello che più deve preoccupare, oltre ai produttori, anche la politica, specie quella europea, è il dato relativo al tasso di attività degli impianti produttivi europei, che operano al 50-55% della capacità, con punte minime del 35% per gli impianti italiani. Rispetto ai valori pre pandemia, la produzione si attesta a valori inferiori del 20-24 con un calo del 50% per gli impianti italiani. Un livello considerato insostenibile per un’industria abituata a saturazioni vicine al 70-75%, con l’equilibrio economico sempre più difficile da tenere con l’utilizzo medio degli stabilimenti sceso di 20 punti percentuali in Europa e di ben 40 in Italia.
E se la redditività dei costruttori europei ed americani è crollata, quella dei produttori cinesi è ancora soddisfacente, complici le filiere integrate e i costi minori, forse anche grazie alla forte mano offerta dal governo cinese, mentre in Europa aleggia sempre più forte lo spettro di chiusura delle fabbriche sottoutilizzate e il licenziamento dei dipendenti a migliaia, con fortissimo allarme dei sindacati, specie di quelli tedeschi che sono presenti nei consigli di sorveglianza delle aziende dove conoscono in tempo reale le condizioni operative degli impianti.
La politica a livello globale è responsabile di questa situazione drammatica dell’industria automotive. Se l’Europa annaspa per lo scenario dell’elettrificazione coatta di tutta la mobilità entro il 2035, uno scenario ormai irrealizzabile tecnicamente, economicamente e socialmente, negli Stati Uniti il cambio di politica impresso dall’amministrazione Trump che ha cancellato la deriva elettrica e i generosi incentivi dell’amministrazione Biden, ha portato case come General Motors a dichiarare perdite per 1,6 miliardi di dollari per il taglio di produzione di veicoli elettrici non apprezzati dal mercato e per la ridefinizione delle strategie di produzione ricentrate sull’auto termica.
Stellantis ha annunciato investimenti per 13 miliardi di dollari nei prossimi quattro anni negli Stati Uniti. La produzione statunitense verrà potenziata del 50% con cinque nuovi modelli nei segmenti principali e 19 iniziative di prodotto nei prossimi quattro anni, generando oltre 5.000 nuovi posti di lavoro negli stabilimenti in Illinois, Ohio, Michigan e Indiana. E’ l’investimento più significativo – sottolinea Stellantis – nei 100 anni di storia dell’azienda negli Stati Uniti. Le risorse sosterranno anche la produzione del nuovo motore a quattro cilindri. I nuovi lanci di prodotto si aggiungeranno a una programmazione regolare e già pianificata fino al 2029 di 19 modelli aggiornati in tutti gli stabilimenti statunitensi e di gruppi propulsori rinnovati.
L’industria automotive europea ha capacità di risorgere e di competere, ma il pallino lo ha in mano la politica, chiamata a correggere profondamente scelte strategiche meramente ideologiche e ambientalmente infondate se vuole salvare un comparto manufatturiero ed occupazionale strategico per l’economia europea.
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