mercoledì 28 Maggio 2025
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    Questa fascia sociale sopporta il doppio maglio delle alte tasse e della compressione reddituale, oltre al taglio pressoché totale delle agevolazioni.

    Il ceto medio in via di estinzione? Indagine Censis-Cida

    Secondo la seconda edizione dell’indagine Censis-Cida, due italiani su tre si sentono ceto medio, ma più della metà teme che i propri figli staranno peggio. Più di otto su dieci non vedono riconosciuto il valore delle proprie competenze nel reddito. E oltre il 70% chiede meno tasse sui redditi lordi pesantemente taglieggiati quando si superano i 50.000 euro lordi.

    Questo è il ritratto del ceto medio italiano che emerge dall’indagine Cida-Censis “Rilanciare l’Italia dal ceto medio. Riconoscere competenze e merito, ripensare fisco e welfare”, commissionato da Cida, Confederazione Italiana dei Dirigenti e delle Alte Professionalità.

    «Il Rapporto fotografa una frattura profonda: il ceto medio è il punto di tenuta del Paese, ma oggi vive un paradosso insostenibile. È troppo ricco per ricevere aiuti, troppo povero per costruire futuro», è l’allarme, insieme alla richiesta di una scelta politica netta, lanciato da Stefano Cuzzilla, appena riconfermato alla guida di Cida. Il ceto medio, ha sottolineato Cuzzilla, «è colpito dal fisco, escluso dal welfare, ignorato nei riconoscimenti. Eppure, resiste: investe nei figli, tiene in piedi famiglie e territori con una generosità silenziosa. Ma quanto può sopportare ancora? E soprattutto, possiamo permetterci di non ascoltarlo? Se non si restituisce dignità economica a chi ogni giorno regge l’Italia, il rischio è uno solo: spezzare definitivamente il patto sociale su cui si fonda la nostra democrazia».

    Per il segretario generale del Censis, Giorgio De Rita, «la ricerca dimostra che oltre due terzi di italiani sente di appartenere al ceto medio. Ceto medio che è protagonista vitale della società italiana, ma da troppo tempo costretto a non facili adattamenti di fronte alla persistenza di un fisco penalizzante, di un senso di sicurezza in erosione e di un’attenzione ridotta al valore delle competenze e delle funzioni avanzate in una società ad alta complessità. Tutelare e rilanciare il ceto medio è oggi una scelta essenziale per la crescita del Paese».  

    Il ceto medio italiano non si definisce attraverso il reddito, ma attraverso l’identità culturale: il 66% degli italiani si riconosce nel ceto medio, e per oltre il 90% ciò che conta davvero è il sapere, il livello di istruzione, le competenze acquisite afferma l’indagine Censis-Cida.  

    Questi valori – pur costituendo il fondamento identitarionon trovano più riscontro nella realtà economica. L’82% degli italiani che si autodefinisce di ceto medio denuncia che il merito non viene riconosciuto, che il capitale culturale non si traduce in una giusta retribuzione. È qui che si apre una frattura decisiva tra capitale umano e capitale economico. E quando il riconoscimento non arriva, il motore si spegne: ciò che era spinta verso l’alto diventa semplice sopravvivenza.

    Negli ultimi anni, oltre la metà degli italiani che rappresentano l’ossatura sociale del Paese ha visto il proprio reddito fermo, mentre più di uno su quattro lo ha visto calare. Solo il 20% dichiara un miglioramento. Ma più che arretrare, il ceto medio oggi galleggia senza prospettiva. Anche i consumi riflettono questo stato: il 45% li ha già ridotti, e la maggioranza teme ulteriori tagli nel prossimo futuro. Non è solo una condizione economica, è un malessere sociale diffuso che svuota di speranza il futuro. Un futuro che, sempre più spesso, il ceto medio non riesce più a immaginare dentro i confini del Paese.

    Il 50% dei genitori appartenenti al ceto medio, il cuore produttivo del Paese, ritiene che i figli staranno economicamente peggio, e il 51% auspica che cerchino opportunità all’estero, segnando il sorpasso definitivo del “mito dell’altrove” sul sogno di mobilità sociale interna, afferma l’indagine Cida-Censis. Nonostante ciò, il ceto medio continua a investire: il 67% delle famiglie di ceto medio con figli conviventi sostiene spese straordinarie per garantire un futuro ai figli, mentre oltre il 41% aiuta economicamente figli e nipoti, confermandosi come primo ammortizzatore sociale del Paese.

    Tra i pensionati della fascia di riferimento del rapporto, il 47% aiuta regolarmente figli o nipoti, e il 66% ha finanziato o finanzierà almeno una spesa straordinaria. Questa “generosità silenziosa” è sempre più sotto pressione. Solo il 52% si sente protetto da reti di welfare; gli altri oscillano tra ansia, incertezza e vera e propria insicurezza. E il risparmio, da sempre uno dei tratti distintivi del ceto medio, si erode: il 46% ha ridotto la capacità di accantonare risorse, e il 44% prevede un peggioramento nei prossimi tre anni. Quando la fiducia nel futuro si incrina, cresce il bisogno di protezione: ma è proprio qui che il sistema mostra le sue crepe più profonde.

    L’indagine Censis-Cida evidenzia come solo il 18% degli italiani giudica sufficiente il welfare pubblico. Di fronte a questa percezione di inadeguatezza, cresce la corsa al welfare integrativo: il 45% possiede una polizza sanitaria o un fondo pensione e circa il 36% vorrebbe che il contratto collettivo del settore in cui lavora prevedesse la sanità integrativa. Il rischio è una nuova disuguaglianza: tra chi può permettersi una protezione privata e chi resta scoperto.

    Per quanto riguarda il rapporto con il Fisco, il 70% degli italiani chiede meno tasse sui redditi lordi, e oltre l’80% denuncia un grave squilibrio tra ciò che si versa e ciò che si riceve in termini di servizi pubblici. È un grido di allarme trasversale, che attraversa generazioni, territori e professioni. La pressione fiscale viene percepita come eccessiva e iniqua, soprattutto per chi lavora, produce, risparmia, investe. Lavorare di più non conviene, salire di reddito significa perdere benefici.

    «È qui che si gioca la vera partita politica– ha affermato Cuzzilla, davanti ai parlamentari presenti alla presentazione dell’indagine -: il tempo delle analisi è finito, servono scelte nette. Una riforma fiscale che alleggerisca il lavoro dipendente, che premi chi produce valore e non chi lo elude. E basta considerare i pensionati un capitolo di spesa: sono una risorsa strategica, il primo ammortizzatore sociale del Paese. Serve una rivalutazione delle pensioni, un rafforzamento della previdenza integrativa, una più convinta lotta all’evasione, una valorizzazione della managerialità che tiene insieme istituzioni, imprese e cittadini. È il 70% degli italiani a chiedere meno tasse sui redditi lordi, non possiamo ignorarlo. Difendere il ceto medio – e chi lo guida ogni giorno – non è difendere una categoria, ma garantire stabilità, coesione e crescita per l’intero Paese».

    E continuare a ritenere ricco un soggetto che dichiara più di 35.000 euro lordi o, peggio, oltre i 50.000 euro lordi, soglia che fa scattare la taglia del 43% delle tasse e l’uscita da tutte le agevolazioni è un errore strategico che il governo Meloni non può più permettersi di tollerare, essendo a rischio di perdere una larga fetta di quel consenso che le hanno consegnato il successo elettorale.

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