venerdì 30 Maggio 2025
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    Secondo uno studio del Fondo monetario internazionale, valgono il 45% per la manifattura e ben il 110% per i servizi. Contro il 15% esistente negli Usa

    I “dazi interni” all’Unione europea penalizzano l’economia comunitaria rispetto agli Usa

    I cosiddetti “dazi interni” sono una sorta di pesantissima palla al piede dell’economia europea all’interno del mercato comunitario dei 27 che, ancora una volta, sono tutt’altro che un mercato comune e unitario, con tutto quel che ne consegue in termini di competitività della manifattura europea di beni e di servizi, oltre che per maggiori costi unitari a carico dei consumatori, imprese e o persone fisiche. Tanto che un loro superamento consentirebbe una maggiore crescita di ben il 6%.

    La questione dei “dazi interni” è stata evidenziata da uno studio del Fondo monetario internazionale contenuto nel “Regional Economic Outlook 2024” dedicato all’Europa pubblicato lo scorso autunno, citato dal rapporto alla Commissione e al Parlamento europeo di Mario Draghi e, da ultimo dal premier Giorgia Meloni all’assemblea di Confindustria a Bologna.

    Secondo il Fmi, «il costo medio per vendere un bene tra gli stati dell’Unione europea equivale a una tariffa di circa il 45% rispetto al 15% stimato per il commercio interno negli Stati Uniti. Per non parlare dei servizi dove la tariffa media stimata arriva al 110%». Un colossale handicap allo sviluppo del commercio di cui si lamenta anche lo stesso presidente Usa, Donald Trump, quando minaccia l’Unione europea di applicare dazi al 50% sui beni europei importati sul mercato americano. E lo stesso premier Meloni ha ribadito la necessità di impegnarsi per ridurre progressivamente fino ad abolirli i “dazi interni”, con particolare riferimento anche alla stessa Italia che, assieme all’Ungheria, è uno dei paesi europei più chiusi allo sviluppo dell’interscambio interno di beni e servizi.

    Di fatto, il mercato unico europeo è una realtà a 27 diverse velocità in fatto di leggi, regolamenti, regimi autorizzatori, con il risultato che imprese e prestatori di servizi devono barcamenarsi tra ben 27 diverse realtà giuridiche e commerciali, con il risultato di dovere allestire molte varianti dei loro prodotti per soddisfare i diversi requisiti normativi esistenti all’interno dell’Unione europea invece che un unico prodotto o servizio.

    DI fatto, anche secondo il Fmi il mercato unico europeo non è ancora pienamente funzionante, con maggiori oneri per gli stessi europei rispetto agli americani o ad altre realtà, con la necessità «di eliminare tutte le barriere rimanenti a un mercato unico pienamente funzionante per beni e servizi».

    Le misure chiave da attuare, secondo il Fmi, sono «l’apertura di settori protetti, come i servizi finanziari, le telecomunicazioni e l’elettricità, a un maggior numero di concorrenti stranieri; miglioramenti nelle infrastrutture di confine; e norme armonizzate per le imprese che operano in giurisdizioni diverse, come un 28esimo regime societario comune. Queste misure ridurrebbero i costi commerciali e aumenterebbero i benefici di scala».

    Di fatto, si torna sempre alla casella di partenza della concorrenza all’interno dell’Unione europea che politici e pure imprese vedono come la peste, credendo che il mercato nazionale sia una sorta di proprio areale di caccia esclusivo, quando da un territorio più ampio e uniformemente regolato di 450 milioni di persone potrebbe costituire vantaggi per tutti, imprese e consumatori.

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